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lug122018

Ipovitaminosi D: consensus internazionale per la definizione dello stato vitaminico

Qual è il marcatore biologico o biochimico che può meglio identificare un paziente ad alto rischio di ipovitaminosi e quali sono i valori di cut-off che definiscono un reale deficit di vitamina D?
La definizione di ipovitaminosi D (carenza di vitamina D) è al centro di una controversia scientifica che dura da tempo. Dall'incontro di oltre 25 esperti di provenienza mondiale, in un summit interamente dedicato alla vitamina D tenutosi nel giugno 2017 a Pisa, è emerso un paper - Vitamin D: Assaysand the Definition of Hypovitaminosis D: Results from the 1st International Conference on Controversies in Vitamin D (1) - che ha provato a dare una risposta. La discussione sull'importante lavoro, pubblicata pochi giorni fa sul British Journal of Clinical Pharmacology, è stata al centro del VII° Congresso CUEM (Clinical Update in Endocrinology and Metabolism), svoltosi a Milano nei giorni scorsi. «Nonostante tutte le controversie che ruotano intorno alla vitamina D, il suo ruolo essenziale nella salute dell'osso è noto da oltre un secolo e generalmente quando si riscontra uno stato di ipovitaminosi D si interviene somministrando il colecalciferolo o altri precursori della vitamina D». 
Sono le parole di Andrea Giustina, Professore Ordinario di Endocrinologia al San Raffaele di Milano e Presidente GIOSEG (Glucocorticoid Induced Osteoporosis Skeletal Endocrinology Group) che precisa anche che, trattandosi di un ormone, è fondamentale accertarne il deficit e definirne la gravità della carenza nel singolo individuo, in modo da poter intervenire in forma personalizzata. 
Oggi, dunque, la concentrazione nel sangue del metabolita circolante 25 idrossi-vitamina D [25 (OH) D] è considerata il miglior biomarker. Secondo gli esperti del summit di Pisa valori di [25 (OH) D] inferiori a 12 ng/ml riflettono una condizione sfavorevole per la salute ossea, un ridotto assorbimento del calcio, una scarsa mineralizzazione ossea e vengono associati a un aumentato rischio di rachitismo e/o di osteomalacia. Tuttavia solo quelli superiori a 20 ng/ml sono considerati sicuri e sufficienti per la salute dell'osso. «Questo consenso è a suo modo storico» dichiara Giustina. Nonostante vi siano ancora diverse definizioni di ipovitaminosi proposte da società scientifiche e istituzioni nazionali e internazionali, per la prima volta il paper di Pisa individua soglie ideali e condivise dai più grandi esperti della comunità scientifica che si sono espressi per definire una condizione carenziale o di insufficienza di vitamina D. «Questo non vuol dire che tutti i problemi in questo ambito siano risolti. Infatti, se da un lato non abbiamo ancora raggiunto una standardizzazione a livello mondiale delle tecniche di misurazione, dall'altro dagli studi clinici ci arrivano talvolta risultati contradditori spesso legati proprio alle soglie di intervento». 
Gli effetti della somministrazione di vitamina D, infatti, variano molto a seconda della condizione più o meno carenziale di partenza. Sono le due facce della stessa medaglia che Giustina spiega così: «La supplementazione su soggetti carenti mostra, infatti, effetti significativi, mentre su soggetti mediamente non carenti non ci si possono attendere risultati altrettanto validi. La definizione di ipovitaminosi D a cui sono giunti gli esperti rappresenta un importante passo avanti per la gestione clinica sulla base di criteri condivisi a livello internazionale. Le prossime consensus daranno l'opportunità a questo gruppo di esperti di affrontare i problemi ancora sul tappeto».

(1) brj clin pharmacol. 2018 may 31. doi: 10.1111/bcp.13652

Francesca De Vecchi


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