Scienza

mag282018

La dieta chetogenica nel diabete tipo 2 e nell'obesità, tra vantaggi accertati e quesiti aperti

Nel mondo scientifico dedicato al metabolismo c'è un crescente interesse per le diete chetogeniche, con produzione di articoli attraenti come quello recentemente pubblicato da Jennifer Abbasi su "JAMA".

«Le diete chetogeniche sono caratterizzate da bassissimo contenuto di carboidrati (< 50 g/die) ed elevato contenuto di grassi. Queste caratteristiche sono responsabili dello switch dall'ossidazione prevalente dei carboidrati a quella dei lipidi, con formazione di corpi chetonici nel fegato, il più importante dei quali è il beta-idrossi-butirrato» ricordano Giovanni De Pergola e Luisa Lampignani, Ambulatorio di Nutrizione Clinica, UOC di Oncologia Medica, Dipartimento di Medicina Interna e Oncologia Umana (DIMO), Università degli Studi Aldo Moro, Policlinico di Bari. «L'autrice pone la premessa che è difficile perdere peso, ma è ancora più complesso mantenere la perdita, a causa di adattamenti fisiologici: dopo un importante calo ponderale, cresce il senso di fame e si riduce la spesa energetica, adattamenti metabolici che predispongono a incremento del grasso corporeo». Una metanalisi di 13 studi randomizzati e controllati - proseguono De Pergola e Lampignani - ha però permesso di osservare che gli individui che seguono le diete chetogeniche tendono a perdere peso e a mantenere la perdita in maniera significativamente maggiore rispetto a quelli che seguono le diete ipolipidiche. «Le persone che intraprendono le diete chetogeniche percepiscono un minor senso di fame» spiegano «verosimilmente per il maggior effetto saziante di proteine e lipidi rispetto ai carboidrati, per le modificazioni della produzione dei vari ormoni (gastro-intestinali, ecc) che controllano il senso di fame e sazietà e per l'effetto inibitorio diretto esercitato dai corpi chetonici a livello cerebrale, dato che questi metaboliti sono in grado di attraversare la barriera emato-encefalica. Un altro dato importante è che nelle diete chetogeniche non si verifica il decremento della spesa energetica, ridotta di oltre 400 Kcal/die con le diete ipocaloriche e ipolipidiche, caratterizzate da una maggiore percentuale di carboidrati. In sintesi, "la qualità delle calorie condiziona il numero delle calorie ossidate"».

Sebbene nelle ultime decadi le linee guida abbiano promosso le diete a basso contenuto di lipidi negli USA, attualmente il 40% degli adulti e il 19% dei bambini sono obesi e si prevede che oltre la metà degli attuali bambini sarà affetto da obesità intorno ai 35 anni. «Nella comune dieta americana, i carboidrati rappresentano in media non meno del 55% delle calorie totali e variano da 200 a 350 g/die, passando da diete moderatamente ipocaloriche a diete normocaloriche o ipercaloriche» rilevano De Pergola e Lampignani. «Questi modelli alimentari, soprattutto se sono ad alto carico glicemico, favoriscono la "sindrome metabolica" e sarebbero da abbandonare in favore di modelli alimentari con minor quantità di carboidrati e migliore qualità delle fonti alimentari dei carboidrati». Le diete chetogeniche, sottolineano, hanno un contenuto di carboidrati di 20-50 g/die, derivanti da alimenti di origine vegetale poveri di amidi. «La deprivazione di zuccheri e amidi induce una drastica riduzione della produzione e dei livelli circolanti di insulina, fenomeno che facilita lo spostamento dell'ossidazione da carboidrati a lipidi» continuano De Pergola e Lampignani. «Le vecchie diete chetogeniche, prima fra tutte la Atkins, erano caratterizzate da un marcato incremento sia percentuale sia assoluto delle proteine animali. Oltre all'eventuale effetto aterogeno dei macro-nutrienti di origine animale, un eccessivo introito di aminoacidi favorisce la gluconeogenesi, per conversione degli aminoacidi in glucosio, limitando l'utilità della chetogenesi». Sulla base dei dati sperimentali - aggiungono - abbiamo appreso che l'aumento delle proteine deve essere contenuto, mentre deve essere aumentata la percentuale di lipidi insaturi (mono- e poli-insaturi) di origine vegetale, in quantità tali da favorire il senso di sazietà. Queste diete inducono nell'arco di poche settimane significativa perdita di peso e di grasso viscerale e aumento della sensibilità per l'insulina; rappresentano, quindi, una proposta adeguata per i pazienti obesi con o senza diabete, almeno in alcune fasi della loro gestione. «I pazienti con diabete tipo 2, in particolare, ottengono un chiaro decremento di HbA1c e la possibilità di ridurre numero e dose dei farmaci anti-diabetici» evidenziano De Pergola e Lampignani. «Accanto agli effetti su peso e metabolismo glucidico, vanno riferiti quelli positivi su pressione arteriosa e assetto lipidico (riduzione dei trigliceridi e aumento del colesterolo HDL). L'uso di lipidi di origine vegetale (insaturi), piuttosto che animale (saturi), permette di limitare l'incremento, o meglio di ridurre, le concentrazioni di LDL, aumentando anche la dimensione di queste lipoproteine e riducendone, quindi, l'aterogenicità».

Definita l'indubbia utilità delle diete chetogeniche per i pazienti con obesità e diabete tipo 2, si pone il problema di quale sia il tempo complessivo consigliabile per tale modello alimentare. «Studi sull'uomo permettono di dichiarare che un periodo di 10 settimane è sicuramente ben tollerabile, ma vi sono studi che suggeriscono risultati vantaggiosi sino a 6 mesi» riportano gli specialisti. Inoltre, precisano, è fondamentale che le diete chetogeniche siano ben bilanciate per quanto concerne il contenuto di micro-nutrienti (magnesio, sodio, potassio, ecc), che devono essere monitorati e integrati in caso di carenza. Devono essere anche indagati e affrontati eventuali sintomi o segni che possono comparire in corso di dieta chetogenica, come ad esempio la stipsi. «Possiamo affermare che la dieta chetogenica è un mezzo efficace e salutare per perdere peso e guadagnare salute, ma allo stesso tempo non abbiamo dati per affermare che tale modello dietetico possa essere proposto a tutti gli obesi o pazienti con diabete tipo 2. Servono ancora studi per definire i criteri per individuare quali pazienti dovrebbero seguire la dieta chetogenica e per quanto tempo» concludono De Pergola e Lampignani.

JAMA, 2018; 319: 215-217. doi: 10.1001/jama.2017.20639.
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