Professione

mar12016

Miti e realtà sull'origine degli alimenti

I consumatori sono attenti all'origine degli alimenti e sempre più spesso chiedono di conoscere la provenienza di ciò che comprano. I dibattiti in merito sono numerosi ma frequentemente sono costellati di inesattezze che possono generare timori eccessivi rispetto a quanto si consuma.
In primo luogo è la stessa definizione di origine a essere sovente interpretata in maniera confusa. Per origine di un alimento il Regolamento europeo sull'informazione al consumatore intende il luogo di ultima trasformazione sostanziale, vale a dire il Paese in cui l'alimento subisce la trasformazione in prodotto finito. Si tratta di un'informazione che in taluni casi è obbligatoriamente prevista (taluni tipi di carni fresche, congelate o refrigerate, il miele, l'olio d'oliva), in altri viene rimessa alla scelta dell'operatore del settore alimentare. L'assenza dell'indicazione d'origine, tuttavia, non implica che l'alimento sia scadente o sia realizzato con materie prime di dubbia provenienza o, peggio ancora, non sia sicuro. Gli operatori del settore alimentare sono infatti obbligati a tenere traccia nei propri archivi del passaggio immediatamente precedente la fase di propria responsabilità e del passaggio successivo. A titolo di esempio, un produttore di formaggio deve prendere nota di tutti i fornitori diretti di latte così come dei soggetti a cui vende i prodotti finiti. Tali obblighi, stabiliti per legge, rientrano nell'ambito della rintracciabilità, un aspetto strettamente connesso con la sicurezza alimentare. La rintracciabilità è sempre obbligatoria, anche quando in etichetta non appare l'origine dell'alimento. Gli organi di controllo (Nas, Ulss, Corpo Forestale, ecc.) sono infatti così in grado di circoscrivere eventuali rischi e individuare l'anello della filiera da cui è partita la problematica.
Circa l'aspetto dell'ingannevolezza, invece, il nuovo Regolamento ha previsto una stretta di giro verso le pratiche sleali nei confronti dei consumatori. Qualora l'etichetta contenga indicazioni, simboli o pittogrammi in grado di ingenerare nel consumatore l'impressione che l'alimento abbia una determinata origine che non coincide però con l'origine effettiva, gli operatori devono apporre l'indicazione d'origine. Per esempio, nel caso di un prodotto trasformato in Germania e confezionato con un packaging evocativo dell'Italia (con bandiere, scritte in italiano e fotografie di luoghi caratteristici del Belpaese), il produttore tedesco è obbligato a fornire l'indicazione d'origine (made in Germany) al fine di evitare che il consumatore scelga il prodotto ritenendolo italiano, quando italiano non è. Nei prossimi anni, inoltre, scatteranno ulteriori obblighi relativi all'indicazione degli ingredienti nei casi in cui l'origine del prodotto segnalata sia diversa rispetto a quella dell'ingrediente primario.
Si tratta di obblighi comunque funzionali a garantire che la scelta del consumatore possa essere fatta sulla base di questioni etiche, sulla volontà di accorciare la filiera o di sostenere l'economia del proprio o di altri Paesi. Ma nulla in queste scelte è connesso alla sicurezza alimentare. Una materia prima può presentare rischi tanto che venga da un Paese che da un altro e per prevenire tali rischi e circoscriverli, il legislatore ha previsto dei meccanismi avulsi dall'etichettatura.

Paolo Patruno

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