Clinica

nov72017

Il digiuno aumenterebbe in certi casi il rischio di disturbi alimentari

Negli ultimi anni i media e alcuni clinici hanno promosso con sempre maggiore frequenza la pratica del digiuno come pratica "salutare" per perdere peso, detossificarsi, ridurre il rischio di malattia e aumentare l'aspettativa di vita. Questa pratica, la cui efficacia non è supporta da studi "clinici" randomizzati e controllati a medio lungo termine, in alcune persone sembra aumentare il rischio di sviluppare alterazioni del comportamento e in taluni casi disturbi dell'alimentazione di gravità clinica.

Gli studi disponibili sugli effetti del digiuno intermittente (periodi di digiuno alternati a periodi di non digiuno) sul comportamento alimentare hanno fornito risultati contrastanti. Due studi hanno trovato che negli individui con disturbi dell'alimentazione si verifica un incremento significativo dell'introito di cibo dopo 6 e 14 ore di digiuno (Agras & Telch, 1998; Telch & Agras, 1996), un dato però non osservato da un altro studio (Hetherington et al, 2000). Al contrario, due studi su soggetti sani non hanno osservato un impatto negativo di un breve periodo di digiuno sul comportamento alimentare dei partecipanti (Johnstone et al., 2002; Levitsky & DeRosimo, 2010). Infine, uno studio longitudinale di 5 anni ha trovato che il digiuno riportato è un predittore della patologia alimentare e delle abbuffate ricorrenti (Stice et al. 2008).
Per spiegare l'incremento dell'introito di cibo conseguente alle fasi di digiuno sono stati proposti tre meccanismi principali: (i) la restrizione cognitiva (cioè il tentativo di restringere l'introito di cibo per perdere peso) rigida ed estrema che favorisce l'alimentazione in eccesso, attraverso il meccanismo della disinibizione cognitiva, quando il cibo è disponibile e l'individuo rompe una regola dietetica (Polivy, 1996); (ii)  la deplezione di triptofano, un precursore della serotonina, determinata dal digiuno che favorisce le  abbuffate come mezzo ripristinare i normali livelli di  triptofano (Kaye, Gendall, & Strober, 1998); (iii) i bias attentivi nei confronti del cibo ricco di calorie rispetto a quello povero di calorie che si verificano quando una persona digiuna  (Placanica, Faunce, & Soames Job, 2002).
Dal momento che in molte persone il digiuno intermittente non sembra avere un effetto negativo sul comportamento alimentare è evidente che alcune "terze" variabili rilevanti giochino un ruolo chiave nel favorire le alterazioni del comportamento alimentare dopo il periodo di restrizione calorica. A questo proposito è stato trovato che la pratica del digiuno aumenta il rischio di abbuffate e patologia alimentare soprattutto negli adolescenti di sesso femminile (Stice et al, 2008), nelle persone con immagine corporea negativa (Schaumberg & Anderson, 2014) e in quelle con elevati livelli di disinibizione cognitiva basale, mentre non sembra avere effetti negativi quando è adottato per motivi spirituali o religiosi (Schaumberg et al, 2015).
Questi dati indicano la necessità di implementare interventi preventivi per ridurre l'incidenza dell'adozione della dieta ferrea in particolare negli individui più vulnerabili a sviluppare conseguenze negative come gli adolescenti di sesso femminile e le persone con immagine corporea negativa o con elevati livelli di disinibizione cognitiva. Data la natura ubiquitaria delle informazioni scorrette sulla dieta e della pubblicità sulle pratiche dietetiche estreme è necessario educare i consumatori a sviluppare attitudini critiche nei confronti di questi messaggi e ad adottare uno stile di vita salutare alternativo alla dieta ferrea. Infine a livello politico è necessario sviluppare dei regolamenti specifici per gestire le false e ingannevoli promesse dell'industria della dieta.

Bibliografia
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Riccardo Dalle Grave


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